Historical & Mythological Short Fiction
World History Encyclopedia's international historical and mythological short story contest
Primo Premio Categoria Giovani 2025
Sophia Campbell è una studentessa di scuola superiore con una grande passione per la scrittura. Ha già pubblicato tre libri e ricevuto numerosi riconoscimenti per le sue opere, fra cui il premio Scholastic silver key. È inoltre una ballerina di danza classica professionista e ha partecipato a diverse produzioni andate in scena al Kennedy Center.
“Dimenticare” è ispirato alle scuole residenziali per i nativi americani.
Avevo dodici anni quando la mia identità mi fu strappata.
Lo strappo fu anticipato da mormorii di parole estranee alla mia lingua lakota, di sillabe che non riuscivo a capire ma che percepii come qualcosa di sinistro: assimilazione, residenziale. Mahkah ed io non ci lasciammo per un secondo in quegli ultimi giorni, aspettando il cambiamento che si avvicinava sempre di più alle pianure settentrionali della nostra terra. Quando gli uomini bianchi in uniforme arrivarono e pretesero i bambini della tribù, fummo trascinate via dalle braccia di iná e até. No! Gridò Mahkah tra le lacrime mentre la afferravano. Lasciatemi andare!
Ci ammassarono in delle carrozze trainate da cavalli, come fossimo delle merci destinate all’altro capo del mondo. Il viaggio fu un nauseabondo turbinio di fiumi serpeggianti e vaste praterie. Infine, noi due sorelle fummo portate di fronte a un grande edificio scolastico. Ebbi la certezza che non avrei più rivisto casa per molto, molto tempo, e il mio cuore sprofondò colmo d’angoscia.
Accanto a me Mahkah tremava. Le nostre dita non si separarono per un istante mentre arrancavamo lungo il viottolo che conduceva alla scuola. Più in là dei bambini si occupavano dei campi. Avevano i capelli lisci e scuri e la pelle olivastra come noi, ma c’era una differenza: avevano in volto un’aria sfinita e consumata, come se fossero invecchiati a causa di qualcosa che ancora non potevo comprendere. Voglio scappare, sussurrò Mahkah senza fiato.
Non farlo, la esortai. Non sappiamo come reagirebbero.
All’arrivo venimmo letteralmente trasformate. Iniziarono con i capelli. Quando Mahkah vide le forbici scoppiò in lacrime. Feci per protestare ma l’occhiataccia ammonitrice di una suora zittì la mia lingua petulante. Le sorelle, così dovevamo chiamarle, non persero tempo e tagliarono le nostre ciocche, lunghe fino alla vita, all’altezza del mento.
Quello fu il primo frammento di me stessa ad andarsene. Nei mesi seguenti, uno dopo l’altro, li avrei persi tutti.
***
A scuola ci insegnarono a dimenticare: avremmo dovuto dimenticare le nostre abitudini, le nostre tradizioni, la nostra tribù, la nostra lingua materna. Ci prendevamo cura del raccolto e degli animali; strofinavamo i pavimenti finché la pelle delle mani non si lacerasse; lucidavamo i vetri delle finestre fino a farli brillare. Giorno dopo giorno avremmo dovuto dimenticare la nostra vita passata e dedicare tutte le energie alla scuola.
Mahkah non si abituò facilmente e reimpiegava spesso parole lakota, rifiutandosi di lavorare. Le suore non esitavano mai a picchiarla per il minimo passo falso, senza alcuna pietà nei confronti delle sue urla strazianti. Col passare del tempo, e delle punizioni violente, percepii il suo fuoco interiore affievolirsi, il suo spirito tenace vacillare.
Un giorno, là fuori nei campi, Mahkah venne punta da un insetto che le lasciò un orribile sfogo rossastro sul braccio. Il fastidio iniziale si trasformò in insopportabili capogiri e martellanti mal di testa. Supplicai le suore affinché la aiutassero, ma nessuno prestò ascolto alle sofferenze di Mahkah. Aveva bisogno urgente di aiuto e io non potevo più stare ad aspettare.
Quella notte, non riuscendo ad addormentarmi sulle rigide assi del letto, raggiunsi il limite. Le suore si erano dimenticate di bloccare una finestra del dormitorio; la tenue brezza notturna mi fece rizzare la peluria sulle braccia, come un richiamo alla libertà. Ero convinta che se fossi riuscita a fuggire, non sarei più stata costretta a dimenticare. Ma soprattutto avrei potuto trovare aiuto per Mahkah.
Guardai mia sorella, addormentata nel letto accanto al mio. Questo non è un addio, sussurrai, tornerò per te.
Silenziosa e in punta di piedi, mi avvicinai alla finestra. Facendo attenzione al minimo rumore, mi sollevai oltre il bordo; atterrai sul patio di legno e cominciai a correre all’istante, senza voltarmi indietro. Corsi attraverso gli sterminati campi d’orzo; attraverso le foreste, inciampando su radici invisibili; lungo ruscelli e torrenti. Correvo senza mai fermarmi.
Mi resi conto, durante la mia fuga, che la scuola non mi aveva rubato tutto, giacché non mi ero dimenticata cosa volesse dire correre.
***
Era da molto che non sperimentavo la furia soffocante del caldo dell’Arizona. Le cicatrici esteriori si erano da tempo rimarginate e i miei capelli erano di nuovo cresciuti fin sotto la vita. Dopo la fuga, avevo trascorso diverse settimane da sola nella foresta senza sapere esattamente dove fossi. Sopravvivere non fu difficile: sapevo quali erano le bacche e le radici commestibili; tuttavia, non avrei potuto continuare così a lungo. Fu allora che m’imbattei negli Arapaho. Il loro capo tribù, con un atto di gentilezza che quasi sicuramente mi salvò la vita, mi riportò nelle Grandi Pianure a dorso di cavallo, fino alle Black Hills dove la mia gente abitava. Dopo essermi ricongiunta con iná e até, dovetti dargli la brutta notizia: erano passati quasi due mesi dal giorno in cui ero scappata e, ormai, sapevo che sarebbe stato troppo tardi per salvare Mahkah.
Da allora sono trascorsi vent’anni. Tanto ci è voluto perché trovassi il coraggio di ritornare alla scuola. E quando tornai, lo feci per un motivo ben preciso.
All’arrivo mi lasciai velocemente alle spalle l’edificio scolastico e attraversai i pascoli. Ebbi un tuffo al cuore non appena vidi un gruppetto di lapidi rotte fare capolino dal terreno, nell’angolo più remoto della proprietà. Mi si velarono gli occhi leggendo i vari Mary, John, Bridget incisi sulle lapidi; finché lo sguardo non si posò su una pietra in particolare. Sulla sua superficie era stato scolpito in tutta fretta il nome inglese che avevano assegnato a Mahkah. La negligenza delle suore l’aveva uccisa, e lo stesso fu per molti altri. Persino dopo la morte furono sepolti con un’identità che non era la loro.
Ci costrinsero a cancellare chi eravamo, i nostri nomi, la nostra terra natia; e chissà fra mille anni il mondo davvero non si ricorderà più di noi. Ma io sono una lakota. Non ho dimenticato chi sono, e niente e nessuno potrà mai farmi dimenticare mia sorella.
Did you love this story as much as we did? Why not share it with someone else to show your support for the author! We're @WHEncyclopedia on social media using the hashtag #InkOfAges 📜🪶
Read the other prize-winning stories →